La Svizzera è la madre di tutti i paradisi bancari, la roccaforte che per anni è stata assediata senza arrendersi. Da sola si stima che la Confederazione custodisca un terzo di tutta la ricchezza clandestina delle famiglie più facoltose del pianeta: 11.000 miliardi di dollari, quasi quattro volte il Pil della Germania.
La Svizzera si arrende sul segreto bancario
Ancora un anno fa gli “gnomi” si consideravano inattaccabili nelle loro fortezze. Erano determinati a respingere ogni richiesta di trasparenza. In un blitz memorabile, che aveva preceduto l’offensiva di Obama, il cancelliere Angela Merkel nel 2008 aveva messo in campo i servizi segreti per procurarsi la lista dei miliardari tedeschi con i conti cifrati nel Liechtenstein. La reazione del principato di fronte allo spionaggio era stata rabbiosa. Un dirigente di Vaduz parlò di “metodi della Gestapo nazista”. Gli svizzeri gli diedero manforte. Il parlamentare di Berna Thomas Mueller evocò “quei tedeschi che marciavano al passo dell’oca, con stivali di cuoio e fascia nera sull’avambraccio”.
La pressione tedesca da sola non sarebbe bastata a superare le forti resistenze della Svizzera e del Liechtenstein. E’ stata decisiva l’entrata in campo degli Stati Uniti, con il cambio di Amministrazione che da Bush a Obama ha segnato un tornante contro il lassismo fiscale. Al culmine della tensione tra Washington e Berna alcune “banques privées” di Ginevra hanno dovuto proibire ai loro top manager di viaggiare in America. Sono i gestori di grandi patrimoni che per generazioni hanno custodito al riparo da sguardi indiscreti le fortune delle famiglie capitaliste del pianeta. Di colpo esposti ad arresti e interrogatori al loro arrivo in un aeroporto americano.
All’inizio di quest’anno le offensive parallele degli Stati Uniti e dell’Unione europea hanno trovato una saldatura in seno al G20. Al vertice di Londra ai primi di aprile il premier Gordon Brown lanciò il metodo del “Name and Shame“, una “lista dei reietti“. Contro i paradisi fiscali e bancari i Grandi hanno deciso di pubblicare le liste dei paesi reprobi compilate dall’Ocse. Con l’intesa che alla “gogna” devono seguire sanzioni concrete.
Un successo a metà
Tuttavia i successi in questa battaglia sono sempre parziali, e provvisori. Un piccolo incidente emblematico lo dimostrò proprio il G20 di Londra. Dove il presidente cinese Hu Jintao accettò di firmare l’intesa contro i paradisi bancari a una condizione: che nella lista dei “reprobi” non venissero incluse Hong Kong e Macao. Due provincie autonome della Repubblica Popolare, nonché due piazze offshore dove il segreto resta impenetrabile. Il rischio, che a Berna hanno denunciato da tempo, è che i grandi evasori americani ed europei lascino la Svizzera e il Liechtenstein per trasferirsi in Estremo Oriente. La rincorsa tra guardie e ladri non finirà mai. Consiglia la cautela il ritrovare un titolo in prima pagina del New York Times: “Il Congresso sancisce la fine dei paradisi fiscali”. E’ una copia d’archivio datata 4 febbraio 1962, quando alla Casa Bianca c’era John Kennedy.
Per ora il dipartimento di Giustizia di Washington si accontenta, pragmaticamente, di portare a casa un consistente recupero di gettito. Più l’effetto-deterrente che accompagna una vittoria di questo tipo: per gli alti redditi negli Stati Uniti c’è la sensazione che il vento sia cambiato, rispetto al permissivismo fiscale dell’èra Bush. La resa spontanea di molti clienti dell’Ubs, rei confessi grazie all’amnistia, può avere un potere pedagogico. In questo girone, la vittoria va all’Internal Revenue Service.
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